
“La mossa del cavallo” è un romanzo edito da Rizzoli nel 1999 e da Sellerio nel 2017 scritto da Andrea Camilleri.
La vicenda prende spunto da fatti realmente accaduti in Sicilia nella seconda metà del XIXesimo secolo e Camilleri dà vita a un romanzo storico-politico, oltre che ha un poliziesco.
Giovanni Bovara è un ispettore genovese inviato a Vigata, in Sicilia, in qualità di Ispettore capo dei Mulini. Coraggioso e retto, inizia a indagare sulle morti avvenute in circostanze sospette due suoi predecessori, Tuttobene e Bendicò.
Bovara è cresciuto in Liguria ma ha origini siciliane e questo gli permetterà di uscire dall’intricata situazione in cui si troverà a causa delle sue indagini.
Volendo far chiarezza sull’utilizzo dei mulini, Bovara incappa in spiegazioni e personaggi loschi, fra cui l’avvocato Fasulo e Don Cocò Afflitto.
Un giorno, rientrando dalla visita a un mulino, sulla strada che lo conduce nella casa presa in affitto, Bovara sente uno sparo e pensa di esserne il bersaglio. Si nasconde dietro un cespuglio ma, a sua grande sorpresa, vede un uomo a cavallo allontanarsi. Esce dal suo nascondiglio e riprende il percorso nella direzione del rumore delle sparo. Poco lontano trova il corpo esangue di Padre Carnazza, il prete di Vigata, colpito all’addome da un colpo fatale. Poco prima di spirare, il prete dirà qualche parola all’ispettore tra il rantolo e il dialetto siciliano che Bovara non riesce a capire.
Coperto del sangue di Padre Carnazza, Bovara corre a raccontare l’accaduto ai colleghi della Polizia e, contro ogni attesa, l’ispettore viene accusato di omicidio!
Da qui, nasce un romanzo che alterna allo stile narrativo classico, lo stile epistolare; all’italiano parlato, l’ampolloso italiano scritto e burocratico; al dialetto ligure, il dialetto siciliano.
Al di là della trama, la forza di questo romanzo risiede proprio nella ricchezza di linguaggi e dei registri. L’ispettore Bovara per uscire dalla spinosa situazione in cui si è cacciato, dovrà riavvicinarsi alle sue origini sposando il dialetto siciliano. Solo parlando in dialetto siciliano riuscirà a fare “la mossa del cavallo”, ovvero a scavalcare i suoi avversari.
Signor Bovara, quando il cancelliere e io l’abbiamo salutata, lei ha risposto dicendo: baciamulimani. Perché ci ha risposto in dialetto?
Pirchì fino a quanno mi trovu in chista situazioni penserò e parlerò accussì.
Guardi che la cosa, ai fini dell’interrogatorio, dato che tanto io quanto il cancelliere siamo siciliani, non ha nessuna importanza.
Questo lo dice vossia.”
Che uno dei lasciti del grande Camilleri non sia farci riflettere sull’importanza di tenere sempre a mente le proprie origini? Anche se la vita ci obbliga a prendere altre strade, Camilleri sembra volerci suggerire che la pienezza di un individuo sta nel saper integrare alla propria vita, il lascito delle tradizioni. Senza mai rinnegare l’una o l’altra possibilità, lo scrittore, tramite la vicenda del suo personaggio, ci mostra come le due parti di una stessa anima devono dialogare per poter rendere un uomo completo.
“La mossa del cavallo” è anche un carnevale di maschere “goldoniane”: la vedova Trisìna Cìcero, una
“trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell’inferno. Mischineddra, era rimasta vedova da tre anni. Da allora si vestiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màsculo a governarla”.
E continua
“non mancano gli “armàli” velenosi (l’avvocato Fasùlo e La Mantia, vice del delegato Spampinato) che illecitamente hanno fatto “tana” delle carte più compromettenti dell’Intendenza.”
Lo stesso Padre Carnazza è una maschera:
“Soprattutto, patre Carnazza amava la natura. […] Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della femmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi alla fantasia del Criatore”.
Anche i nomi dei personaggi sono parlanti, Carnazza rinvia alla passione carnale del prete mentre Bendicò, il nome del predecessore di Bovara, è di chiara origine “gattopardiana”.
Il romanzo si conclude con una divertentissima carrellata di sogni fatti dai vari personaggi del romanzo e che rimandano ad alcune opere di autori particolarmente importanti quali Kafka o Proust.
L’unico neo di questo romanzo sono le parti scritte in dialetto ligure che mi sono risultate completamente incomprensibili. Per queste parti del romanzo, così necessarie, una traduzione in calce avrebbe potuto aiutare.
Per il resto, “La mossa del cavallo” si legge d’un fiato e, per gli amanti di Pirandello, sicuramente ne ritroverete, nascosta quà e là, qualche traccia.
Sinossi
Il romanzo (pubblicato la prima volta da Rizzoli, nel 1999) è una combinazione di mosse ingegnose: una macchina scenografica a scacchiera. I suoi pazi mobili sono resi illusori dal tatticismo dei giocatori. Tutto succede, in questo «teatro» di manovre ingannatrici, senza che nulla appaia accadervi. Il macchinismo è in obbligo ora con la falsità, ora con gli sghembi della ragione. Il traffico delle apparenze è gestito, in tutti i casi, dalla contraffazione: canagliesca da una parte; dettata dalla disperata lucidità della ragione dall’altra. La partita è truccata. La verità è uno «scavalcamento», uno scacco matto che scombina. Sfugge sempre dietro l’angolo però. Ed è della stessa materia di cui sono fatti i sogni. La mossa del cavallo è un giallo in forma di «farsa tragica» (irresistibile con i suoi crescendi rossiniani); e in posa di romanzo storico accreditato dal saggio Politica e mafia in Sicilia (1876) di Leopoldo Franchetti. La vicenda si svolge, tra Montelusa e Vigàta, nell’autunno del 1877: ai tempi della Sinistra storica al governo, e dei malumori contro il mantenimento dell’odiosa tassa sul macinato. Un intero Libro delle mirabili difformità, prossimo al Bestiario, si è riversato in quel circo che è la provincia nella quale è stato precipitato, come dentro una ragnatela, l’ispettore capo ai mulini Giovanni Bovara: un ragioniere a cavallo, succeduto nell’impiego ai colleghi Tuttobene (dato in pasto ai pesci) e a Bendicò (abbandonato ai cani, come suggeriva il nome di familiarità gattopardesca). C’è una Gazza ladra, vedova allegra con tanto di tariffario; e c’è un Sorcio cieco (l’intendente di Finanza), che tutti chiamano scarafaggio «merdarolo» perché uso ad appallottolare e «interrare» le mazzette riscosse. Segue un prete sciupa femmine e strozzino, che il cugino vede come un «bùmmolo» con i manici ad ansa, riplasmato sul modello della donna pentolaccia di manzoniana memoria. Non mancano gli «armàli» velenosi (l’avvocato Fasùlo e La Mantìa, vice del delegato Spampinato) che illecitamente hanno fatto «tana» delle carte più compromettenti dell’Intendenza. Nani, anche «a forma di botte», spilungoni, strabici e scimmieschi, errori di natura sempre, sono i corrotti sottoispettori scelti e pagati per non vedere i mulini clandestini degli evasori. Regista, in ombra, delle trame (delittuose e politiche) del circo è il capomafia don Cocò Afflitto: il proprietario dei mulini e dei giornali locali. Per neutralizzare le denunce di corruzione del Bovara vengono predisposte varie messinscene. L’ispettore deve scansare una trappola. Ma non ha punti di presa. Fino a quando non si scommette nel «gioco» con gli avversari, ricorrendo alla loro stessa arte. Nato a Vigàta e cresciuto a Genova, l’ispettore si riappropria del dialetto d’origine; e, da dentro la ritrovata dimora linguistica e antropologica, arma la controbeffa.
Link d’aquisto: https://sellerio.it/it/catalogo/Mossa-Cavallo/Camilleri/9170
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